domenica 17 novembre 2013

Una posizione scomoda


FRANCESCO MUZZOPAPPA
Fazi Editore
Anno 2013
Pag. 223

Recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.letteratitudine.it

 Obporno collo.

Fabio Loriero è diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. È una giovane promessa. È l’allievo preferito di registi del calibro di Gianni Amelio e Sorrentino. La stampa lo indica come l’erede di Rulli e Petraglia. Appena uscito dal Centro lo cercano tutti, ma lui rifiuta di lavorare alla sceneggiatura di “Un medico in famiglia”, sbatte il telefono in faccia ai produttori di “Un posto al sole” e addirittura brucia il biglietto da visita del produttore della nota serie televisiva “Don Matteo”. Questo perché Lui, è orgoglioso. Lui è migliore del corso, l’erede dei grandi sceneggiatori italiani e non può abbassarsi a scrivere per le fiction. Ma Fabio Loriero commette l’errore di perseverare e continua rifiutando tutto finché, un giorno il suo telefono non squilla più e lui cade in depressione e senza soldi. Vede i suoi colleghi di corso lavorare con Verdone, Archibugi e anche all’estero, ma soprattutto vede l’ascesa del suo amico Giovanni Settemacchie alle vette del cinema che conta. Giovanni, infatti, lavora con Bertolucci. Sì proprio Giovanni. Il più cretino del corso, e lui? La grande promessa, che fa? Fa cose incredibili! Fa sceneggiature a base di “OOO”, e spesso litiga con il suo produttore che le vuole a base di “AAA”. Sissignore, è pazzesco, ma Fabio Loriero per vivere fa lo sceneggiatore di film porno. Così mentre i suoi colleghi fanno carriera e scrivono per grandi registi, lui sprofonda negli abissi del cinema porno scrivendo sceneggiature-parodie di film o romanzi di successo come: “Il profumo del maschio selvatico”, “Dorian Gay”, “Analcord”, “Erezioni di piano” ecc.. Fabio fa questo lavoro senza un minimo di passione, nascondendosi da tutti, costretto a celare e mentire per salvarsi dall’umiliazione di lavorare nel porno. Ma nonostante tutto il nostro “Fabius” è sempre un artista di qualità e alla fine riesce pure a vincere il premio come miglior sceneggiatore all’XXX Festival del cinema porno a Cannes con “L’importanza di chiavarsi Ernesto”, parodia del capolavoro di Oscar Wilde (non oso immaginare cosa succede alla giovane Cecily e Miss Prism, anche se appare ovvio).

Altro ancora riserva la vita al nostro eroe, ma per non togliervi il piacere della lettura mi astengo dal raccontare il seguito, anche se volendo potrei farlo, perché il fascino di questo libro, non sta soltanto  nella freschezza e strampalatura della trama, ma soprattutto in quell’umorismo amaro, costellato da fallimenti e speranze infrante, che grazie alla grande auto ironia del narratore si trasforma in un piccolo capolavoro d’assoluta comicità, dove spesso ci si sorprende a ridere di gusto in un momento topico: “Indossava un cappellino che definire eccessivo è riduttivo. Corrisponde esattamente a ciò che sceglierebbe la Regina Elisabetta nel caso decidesse di sfilare nel carro inaugurale del gay pride.” Battute come questa si susseguono per tutta la durata del libro, ma senza strafare. Messe sempre al momento e al posto giusto. Senza far diventare l’opera il monologo di un comico strappa applausi, mantenendo sempre il sottile equilibrio fatto d’auto ironia, comicità e irriverenza, senza scendere mai nel volgare, restando per giunta in una tematica che di per se è piuttosto triviale. Il porno, infatti, non disturba affatto il lettore restando un argomento incidentale, inoltre il linguaggio di Muzzopappa è sempre piacevole, fatto da lunghi monologhi a frasi brevi.

La caratterizzazione del personaggio è ottima e Fabio suscita subito le nostre simpatie proprio per quella sfortuna che lo perseguita, dato che oramai si è epurato dall’orgoglio dei sogni di gloria dell’Accademia e da tempo si sbatte come migliaia di giovani d’oggi alla ricerca di un lavoro, sapendosi adattare anche a cose che mai si sarebbe immaginato di fare pur di risolvere le proprie necessità economiche. Si vergogna, certo! E vive in Una posizione scomoda fatta di segreti, imbarazzi e doppi sensi, ma è tenace, tosto, e non si abbatte nella ricerca di realizzare il suo sogno.

In conclusione il libro di Francesco Muzzopappa è molto gradevole. Fa ridere per la quantità impressionante di battute comiche e situazioni sui generis lanciando il messaggio ai giovani di non mollare e credere nei sogni anche se nel suo caso il protagonista per affermarsi, Obporno collo, si è trovato spesso in Una posizione scomoda.

Operazione Madonnina

 
R. Besola – A. Ferrari – F. Gallone
Fratelli Frilli Editori
Anno 2013
Pag. 220
Recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.thrillercafe.it
Ho letto di furti audaci, strampalati e religiosi, su tutti D. Westlake con “Meglio non chiedere”, dove una banda d’affermati professionisti del crimine diretta da Dortumunder ruba la reliquia miracolosa di Santa Fergana.
Ho visto film di furti audaci, strampalati e religiosi, su tutti “Operazione San Gennaro” con il grande Nino Manfredi nella parte di Armanduccio Girasole detto Dudù e con nel mirino l’inestimabile valore del tesoro del patrono di Napoli.
Oggi ho letto di un furto audace, strampalato e religioso fatto da Angelo (il Cencio), Osvaldo (il Gigante), Lorenzo (il Gagà). Una banda improvvisata, alter ego dei tre scrittori italiani che nella vita fanno proprio gli stessi mestieri dei nostri raffazzonati furfanti, e infatti, Riccardo Besola è un pubblicitario (il Gagà e mente del gruppo), Andrea Ferrari dirige una comunità per anziani con balera e bocciofila (il Gigante) e Francesco Gallone vende fiori artificiali al mercato (il Cencio).
Il furto è fra i più incredibili che una banda abbia mai pensato di effettuare. Si tratta di rubare  un’enorme statua tutta d’oro. 500 chili d’oro, alta più di 4,00 metri, posta a circa 100 metri d’altezza, nel posto più in vista della città di Milano e in quello più arduo da raggiungere. E sì, l’avete intuito. Si tratta proprio della Bella Madonina che te brilet de luntàn tutta d’oro e… Tutta d’oro? D’oro un cavolo. Quella è la leggenda. Nei fatti è semplice rame dorato, ma i tre invece la credono veramente d’oro e non devono far altro che rubarla con l’aiuto di un elicottero, poi una volta ridotta a pezzi, ricavarci più soldi possibili per risolvere ognuno i sui problemi, perché la nostra banda è decisamente ridotta alla canna del gas in una Milano del 1973, dove trionfa l’edilizia selvaggia (l’Osvaldo rischia di perdere il suo ristorante con bocciofila se non lo riscatta a danno di un costruendo orribile stabile in via Ripamonti), dove proliferano bande criminali che tengono sotto scacco la polizia (il Gagà per qualche prestito in più rischia di essere ammazzato dagli strozzini) e dove si vede per la prima volta l’affacciarsi in quella realtà dello spettro della disoccupazione (il Cencio ha perso il suo lavoro da fioraio e deve mandare avanti la numerosa famiglia).
Rispetto ai citati Dortumunder e Dudù che rubano solo per denaro, per il nostro trio far sparire la Madonnina non è solo risolvere i rispettivi problemi economici, ma qualcosa di più, è quello che “mai nessuno, prima d’ora ha osato fare: profanare il simbolo stesso della città di Milano. La città che ha generato il loro bisogno ha generato anche la loro necessità. E la loro necessità è tremenda, in tutta la sua disperazione”. Oltre ai soldi c’è di più, molto più della rivalsa di gente disperata che in questa città ha visto il pane “Milan gh’è il pan”. In questo gesto disperato c’è “il significato simbolico, la metafora di rubare ciò che di più prezioso e rappresentativo possiede chi ti ha tolto tutto. Tutto….. e Osvaldo per la prima volta prova un odio profondo per quel catino di menzogne di cemento e menzogne che è diventata la sua città. Milano che oramai è amara come un bicchiere di olio di ricino”.
Il piano è semplice da attuare. Basta un elicottero, imbracare la statua e via, ma se il pilota è un reduce americano della seconda guerra mondiale che ogni volta attacca la solfa di: “Eravamo io, Johnny Michigan, Karl e Lenny Malone”, allora le cose si complicano.
Operazione Madonnina oltre a Angelo, Osvaldo e Lorenzo ha altri due protagonisti minori altrettanto completi e ben caratterizzati: l’ispettore di PS Benito Malaspina (chissà se i tre scrittori sono a conoscenza che il carcere di Caltanissetta si chiama proprio con il cognome del poliziotto) ossessionato dall’essere al centro dei pensieri del boss Ugo Piazza che vuole ucciderlo per vendetta e Dino Lazzati detto Fernet, superstizioso e valido giornalista di cronaca nera. Ma tutti i personaggi di quest’opera sono ideati nel modo migliore. Sono completi, psicologicamente trattati, perfetti e socialmente inseriti in quella Milano del 1973, così ben ricreata anche nei dettagli politico sociali.
La narrazione in terza persona è bella, lucida, serrata, efficace, diretta, ironica quanto basta e intercalata da dialoghi in dialetto milanese piacevoli e caratteristici, che fanno vivere perfettamente l’ambientazione, l’epoca dei fatti, le miserie e i tradimenti del dopo boom economico della nostra Italietta.
Questa impeccabile dimensione storico-sociologica, la stessa trama di per sé originale, l’ottima caratterizzazione dei personaggi tutti, e il brillante stile narrativo, collocano l’opera del trio Besola – Ferrari – Gallone fuori dal romanzetto e la fanno meritevole di un posto di considerazione nella moderna narrativa italiana, più che capace di confrontarsi con quella d’oltre oceano, e di fronteggiare a testa alta i colossi dell’editoria commerciale.
recensione di Ivo Tiberio Ginevra

La notte del gatto nero


ANTONIO PAGLIARO
Guanda Editore
Anno 2012
Pag. 207

Recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.thrillercafe.it

La notte del gatto nero è un grande romanzo senza il bene e senza eroi, scritto da un narratore con linguaggio lucido e universale. Uno scrittore davvero bravo.
 
Avviso che questa recensione contiene spoiler e soprattutto l’esortazione a leggere questo buon romanzo italiano, a mio parere fra i migliori pubblicati negli ultimi due, tre anni e allora…
In realtà Le notti sono due.
La prima cambia radicalmente la vita.
Palermo. È notte fonda in casa del professor Giovanni Ribaudo quando squilla il telefono. Sono le tre. Una donna dall’altro capo dell’apparecchio cerca suo figlio. Giovanni, ancora addormentato va in camera di Salvatore. Non lo trova. Non è ancora rincasato. Non si preoccupa. Anche Vera, sua moglie, non si allarma. È normale per un ragazzo di vent’anni, pensano. Ma Salvatore quella notte non tornerà, e neanche l’indomani. Non tornerà più. È in carcere per detenzione di un ingente quantitativo di droga. La famiglia Ribaudo, una famiglia “normale” come ce ne sono tante è stravolta. Però non è tutto. Salvatore è anche in possesso di materiale pedopornografico. In una famiglia “normale” è cresciuto un mostro. Lo sdegno del padre è immenso. La madre tace. 
Il dramma interiore di Giovanni Ribaudo è profondo, ma lui è una persona corretta, moralmente irreprensibile e soprattutto fiduciosa nelle istituzioni, quindi non può far altro che lasciare il figlio Salvatore al suo meritato destino di malvivente. Ma dopo un iniziale smarrimento pieno di sconforto, incredulità, sdegno e infinita tristezza, la voce del sangue prevale, così come la voce della ragione, perché non può essere che un mostro di tal fatta sia cresciuto in quella famiglia “normale” con una madre cattolica praticante e un padre professore di liceo, stimato e integerrimo.
È tutto incomprensibile ma Giovanni dopo avere metabolizzato il fatto si convince dell’innocenza del figlio. Lui e sua moglie non possono aver cresciuto un mostro. Intanto la vita del Professor Ribaldo oramai incanalata in un tunnel nero, si arricchisce del famoso linguaggio “legalese” e al contempo s’impoverisce per l’ingordigia di avvocati e banchieri sempre pronti a lucrare sulle disgrazie altrui. Alla fine ottiene di incontrare suo figlio in carcere.
Salvatore è malconcio. L’hanno preso a botte. Botte da orbi. Prega il padre di tirarlo fuori perché è innocente, ma presto. Presto però. Il ragazzo sa che non c’è tempo da perdere. E, infatti, un giorno a casa Ribaldo arriva la tragica notizia.  Salvatore si è tolto la vita impiccandosi nelle sbarre con un lenzuolo fatto a corda. Non crede sia possibile che il figlio si sia tolto la vita, ma lui, Giovanni ha fiducia nella giustizia. È un uomo retto lui. Sa che ci vorrà del tempo perché è una macchina lenta, ma alla fine tutto seguirà il suo naturale corso. Lui ha una fiducia incrollabile nella giustizia e nella legalità. Nel frattempo la vita del nucleo familiare si stravolge ancora di più, perché Vera, sua moglie, trova conforto nella fede e, lui, dopo essersi prosciugato economicamente, è in procinto di perdere anche il lavoro. La sua fede è nell’innocenza di Giovanni. La fede civile: quella nella giustizia statale con la “G” maiuscola, inizia a vacillare.
La seconda notte cambia ancora radicalmente.
Siamo sempre a Palermo. In un pub, "Il Gatto nero”. Giovanni è disperato. Beve. Perché oramai Giovanni beve. È con il bicchiere in mano quando incontra Tony, un suo vecchio amico di gioventù. Una frequentazione di quelle pericolose. Tony è un criminale. Lo è sempre stato, ma ora lo è di più. Ora è un mafioso, “di quelli giusti”. È una frase di Tony che gli fa cambiare ancora tutto: “Giovà, vuoi sapere qual è l’unico modo per avere giustizia? Ci devi pensare da solo”.
Detto da un mafioso è lampante il perché. Giustizia privata. Anzi, una sola parola: VENDETTA! D’altronde, non era forse il Levitico dell’Antico Testamento del VI-V sec. A.C. a citare che: “Se uno farà una lesione al prossimo, si farà a lui come egli ha fatto all’altro: frattura per frattura, occhio per occhio, dente per dente; gli si farà la stessa lesione che egli ha fatta all’altro” e anche se ricorrere al male è sempre sbagliato cosa si deve fare quando non c’è la giustizia o la stessa giustizia è marcia con tutte le sue istituzioni? Anche se le vendette giuste non esistono (Chervantes nel Don Chisciotte), con l’avanzare dell’età, ci si rende conto che la vendetta è ancora la più sicura forma di giustizia (Henry Becque). Giovanni di sicuro non avrà filosofeggiato su questi concetti, ma è altrettanto sicuro che il dolore irreparabile per la perdita del suo unico figlio, dopo averlo frustrato nelle fauci di una tristezza infinita, sola e senza speranza, si sia trasformato in incubo sordo e poi in rabbia sempre più forte fino a desiderare la vendetta come unico scopo di vita, perché così e solo così, può essere fatta giustizia. Così possono pagare i suoi assassini.
Il suo mondo etico è crollato. La sua salda morale è andata a farsi fottere perché la sua certezza nella giustizia dello stato; quella giustizia insegnata, desiderata, voluta e pretesa, è solo una grande illusione e in ogni caso, se c’è, a lui non spetta! E se lo stato non è in grado, di garantirgliela allora l’alternativa è l’antistato. La mafia. E sarà proprio questa a dargliela, anche se nei fatti cosa nostra ha un ruolo marginale, così come la stessa città di Palermo, per niente invasiva, senza i suoi luoghi comuni e le ossessive indicazioni stradali di vie, piazze, ponti e fontane che massacrano il lettore con percorsi obbligati di cui non gliene frega niente.
Una volta ottenuta la sua vendetta, Giovanni è assalito dalla tristezza. È morso, inaridito, dilaniato, da un’infelicità immensa che ha occupato il posto vuoto della voglia di vendetta e da quel momento la vita riprende il suo corso, ma a lui non interessa più niente e così, fino all’epilogo inaspettato della storia.
La notte del gatto nero è un romanzo ben congegnato, convincente in ogni sua parte, pieno di contenuti e riflessioni su alcuni aspetti estremi della nostra Giusta Società amministrata dai forti poteri statali, come Magistrati, Pubblici Ministeri, Tribunali, Poliziotti, Carceri, che non proteggono i diritti individuali anche all’interno delle stesse istituzioni e strutture del garantismo statale. I tristi casi di Cucchi, Uva, Aldrovandi sono purtroppo la brutta conferma di una giustizia forte con i deboli e al contempo asservita ai forti.
Antonio Pagliaro con lo stile dei grandi narratori che riescono a scandagliare l’animo umano narra semplicemente di cose “anormali” che potrebbero colpire una qualunque famiglia “normale”. Narra di cose “anormali” come il male assoluto che da un momento all’altro potrebbe distruggere ogni tuo sentimento, ogni tua granitica certezza, perché esso esiste ed è appostato dietro l’angolo. Da grande scrittore dipinge con maestria l’escalation psicologica di fatti e personaggi restando sempre un passo indietro; facendo parlare solo i protagonisti, con le loro vicende, il loro dolore, le loro scelte. Pagliaro, senza mai sposare il racconto, stravolge con disinvoltura le certezze che certezze dovrebbero essere e non lo sono. Nel suo romanzo non c’è il politicamente corretto, o il lieto fine d’obbligo, o la giusta morale. C’è la fotografia di una certa Italia che non ci piace vedere, narrata con una prosa secca, tagliente e lucida; fatta da brevi frasi, brevi periodi, dialoghi serrati e verosimili, restando sempre fuori dalla scena. Senza mai criticare, o schierarsi, o ironizzare. Senza essere buonista, possibilista, moralista o assolutista. L’unico intento di Antonio Pagliaro è stato quello di dare al lettore, ogni elemento utile per entrare nella storia, appiccicarsela addosso come propria e verosimile, coinvolgerlo negli eventi e stimolarlo alla riflessione senza dare mai il proprio pensiero, perché lo scrittore, anche se presente in ogni passo dell’opera, non si coinvolge nel romanzo parteggiando con i propri convincimenti. Questi sono dei lettori e sono personali, Pagliaro ha dato con precisa maestria tutti quegli input necessari per una riflessione sulla “giustizia”, perché il narrato è chiaro e si commenta da solo, e come i grandi romanzieri ha scritto togliendo il fiato e senza lasciare nulla al caso.
Recensione di Ivo Tiberio Ginevra

L'ultima esecuzione


ROBERTO GANDUS
Fratelli Frilli Editori
Anno 2013
Pag. 139

Recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.thrillercafe.it

Questo Romanzo ha due grandi protagonisti: La miseria e l’innocenza, e inoltre fornisce lo stimolo per una riflessione sul tema sempre attuale dell’istituto della pena di morte.
La prima protagonista, la miseria, è strettamente legata alla storia che si svolge nel 1945 a Villarbasse, un piccolo paese in provincia di Torino, proprio all’indomani della fine della seconda guerra mondiale, scelto dall’autore quale specchio fedele di un’Italia uscita in ginocchio e malconcia dal conflitto bellico. Un’Italia bisognevole di tutto e, in particolare, dei cosiddetti “Bisogni primari” che arrivano anche a decuplicarsi nelle zone rurali, storicamente depresse al sud come al nord del paese. Bisogni essenziali, dunque, che scandiscono i ritmi della sopravvivenza stessa d’intere comunità contadine. Bisogni basilari, forse oggi desueti, come pane e lavoro, ma fondamentali per uscire dalla miseria in una nazione ancora governata dal patriarcato e dai pregiudizi. La famiglia degli Odasso di Villarbasse, protagonista del romanzo ad iniziare dal suo patriarca, racchiude in sé tutte le caratteristiche socio-ambientali e psicologiche sopra spiegate che sono il teatro dove Roberto Gandus ambienta il suo romanzo, riuscendo a rappresentarle così bene e ad incollarle addosso al lettore, soffocandolo con quella aria di miseria e di rassegnata devastante desolazione, fino a dare l’impressione di sentire con mano il degrado morale e culturale che non è solo di Villarbasse, o di un pezzo di Piemonte, ma storicamente è di tutta un’Italia contadina, unita e cementata dalla miseria. Una miseria senza speranza, grottesca e realistica al tempo stesso, dalle antiche pulsioni Verghiane.
Miseria, dunque, contrapposta all’altra protagonista del romanzo: L’innocenza. Innocenza nella sua più grande accezione del termine e violata senza alcuno scrupolo, sia se questa è fresca e pura come quella di una giovinetta, o libera di spirito come quella di una madre, o peggio ancora inconsapevole come quella di un ragazzo malato di mente. In questo climax perfetto, Gandus costruisce personaggi psicologicamente compiuti e in piena sintonia con il luogo, il contesto storico e il degrado culturale, giocando molto su figure contrapposte, opponendo personaggi, gretti, meschini e bigotti a personaggi, semplici, sinceri e soprattutto puri. Dove, sotto la brace di pulsioni ancestrali e ataviche cova una violenza sorda alimentata dalla miseria umana. Il risultato finale è indubbiamente ottimo.
Infine la condanna a morte di un innocente innesca la riflessione sull’opportunità o meno della pena capitale in tema di grandi delitti. Considerazione lasciata al libero discernimento del lettore, perché Roberto Gandus fornisce solo i giusti stimoli per un dibattito, narrando con distacco sempre scevro da un suo qualsiasi pensiero, soprattutto innanzi alla possibilità, seppur remota, di essere applicata su un innocente. In genere questo lo fanno il grandi narratori.
Concludendo, ed a mio avviso, “L’ultima esecuzione” è un gran bel romanzo che gode di una perfetta ambientazione storico culturale e di un altrettanto perfetta costruzione psicologica dei suoi personaggi, in grado di sollevare discussioni su tematiche sempre attuali.

lunedì 24 giugno 2013

Il killer delle maratone


Autore: Paolo Foschi
Editore: Edizioni e/o
Anno: 2013
Pag. 171

recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.thrillecafe.it

Meno male che Paolo Foschi è uno scrittore dalla penna prolifica, perché mi stavano iniziando le crisi d’astinenza dal Commissario di PS Igor Attila responsabile della Sezione Crimini Sportivi della Questura di Roma. Meno male che è uscito un nuovo episodio perché mi sono veramente affezionato a questo maledetto commissario e alla sua strampalata squadra di collaboratori, tutti ex sportivi come lui. Tutte promesse mancate a partire proprio da Igor Attila, che alle olimpiadi di Seul si fece soffiare sotto il naso, la medaglia d’oro e il titolo di campione di boxe da un pugile coreano dal nome impronunciabile. Adesso Attila è un Commissario di Polizia, ma il suo carattere individualista, forgiato dai pugni degli avversari non l’ha abbandonato anche quando conduce un’indagine come quella del killer delle maratone che si presenta fin da subito piuttosto insolita e maledettamente complicata. C’è, infatti, un serial killer che uccide un corridore dilettante ad ogni maratona e non usa un’arma comune tipo pistola o pugnale, ma una balestra. Una balestra di precisione, potentissima. Il forte e polemico carattere di Attila durante il corso dell’indagine lo porterà a litigare con mezzo mondo, fino ad essere isolato insieme alla sua squadra, ma Igor Attila è ancora pugile dentro. Lui non è tipo da arrendersi così facilmente e da lupo solitario lavorerà al caso fino a….. Altro ovviante non si può dire perché si tratta di un giallo. Atipico perché ambientato nel mondo dello sport, come i due precedenti Delitto alle Olimpiadi e Il castigo di Attila, ma bello, originale, semplice, dal ritmo incalzante e dalle trovate geniali.

Nei romanzi del commissario Attila, tutto ruota intorno a lui. Tutti sono di contorno e lui fa il bello e cattivo tempo fino ai limiti dell’odio, però ha fascino, tanto fascino e caratterialmente è un personaggio completo e perfetto. Sì, va beh, è un edonista, egocentrico, nevrastenico, indisciplinato e autolesionista, ma è anche un geniale, cocciuto, e tenero poliziotto. Rifugge la tecnologia, ama le chitarre elettriche, corre con la moto e si tormenta il fisico con esercizi fino allo stremo delle forze bevendo di tutto e di più nei suoi forti momenti di depressione. Ha pure dei gusti e delle relazioni particolari, ma questa è un’altra cosa che non disturba affatto il lettore perché Igor Attila ha il maledetto fascino di chi o si ama o si odia.

Paolo Foschi ci dona anche un finale serrato e con maestria di giallista, alterna con sapienza le tormentate vicende della vita personale di Attila alle coinvolgenti fasi delle indagini sul killer, creando un personaggio dal profilo completo in poco più di 150 pagine.

In conclusione, una lettura, veloce, gradevole e soprattutto disintossicante. Da usare quando si passa da un mattone all’altro, però Vi avverto subito che crea dipendenza.



mercoledì 12 giugno 2013

Bentornati in casa Esposito


 

Autore: Pino Imperatore
Editore: Giunti Editore
Anno: 2013
Pag. 288

Recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.thrillercafe.it
Non ho mai usato un superlativo, ma oggi lo sparo ed è tutto rivolto a Pino Imperatore per questo suo BELLISSIMO “Bentornati in casa Esposito“.

Innanzitutto sono stato colpito dalla dedica dell’autore “Alle vittime innocenti della criminalità” e subito dopo dalla citazione di Amato Lamberti “Solo i giovani possono dare una nuova voce alla voglia di legalità delle nostre terre“. Non la citazione del grande letterato di turno, ma quella di un semplice uomo di cultura che con la sua testimonianza di vita fatta di onestà e coraggio, intelligenza e generosità, ha forgiato intere coscienze contro il potere criminale.

Ebbene dopo premesse del genere è lecito aspettarsi un romanzo saggio-inchiesta contro la delinquenza organizzata ricco di documenti, pensieri e soprattutto paroloni, invece trovi un’opera tragicomica finalizzata all’abbattimento del tabù camorra: “perché la camorra non vale niente“, perché ” la camorra è stupida“.

Messaggio forte e chiaro. Lanciato soprattutto alle nuove generazioni. Lanciato in modo diretto e metaforico nell’unico linguaggio universale possibile: quello della satira. Quello del sorriso. Perché ridicolizzare il mostro facendo ridere delle sue debolezze, ha un effetto pari a quello di un esorcismo ben riuscito. Perché ridere in faccia allo strapotere criminale, è manifestazione di gran maturità. Perché ridere, è presa di coscienza della propria forza. Perché ridere, è testimonianza e insegnamento a non aver paura, ad essere onesti, laboriosi e al contempo intelligenti. Ridere perchè la camorra è stupida e della stupidità si deve anche ridere.
“Per la logica classica il “principio di non contraddizione” è una delle leggi fondamentali del pensiero. Aristotele nella “Metafisica” ne diede una formulazione precisa: “È impossibile che lo stesso attributo nello stesso tempo appartenga e non appartenga allo stesso soggetto e nella stessa relazione. Nessuno può ritenere che la medesima cosa sia e non sia”. Le dichiarazioni contraddittorie, dunque, si escludono a vicenda: <> e <> sono incompatibili. Nessun asserto può essere sia vero che falso. Questo pilastro della filosofia occidentale, su cui tanti straordinari pensatori hanno basato le loro riflessioni, viene demolito ogni giorno dalla camorra. La camorra non ha logica. Non conosce Aristotele e se ne frega della filosofia. Non sa nemmeno che proprio gli antenati del genio di Stagira fondarono prima Parthenope e poi Nepaolis, la Città Nuova. La camorra non ha coerenza. È sanguinaria, disumana, schizofrenica. Se con le minacce e le pressioni psicologiche non riesce a ottenere ciò che vuole, uccide. E anche quando ha ottenuto ciò che vuole, continua a uccidere, per il solo gusto dissennato di moltiplicare i dolori e le sofferenze. La camorra non ha un “logos”. È completamente priva di ragione. Spesso ammazza per un nonnulla, per motivi banali. È contraddittoria. Ammazza persino se stessa. Non dà futuro nemmeno ai suoi figli, costringendoli a vivere le paure che essa stessa ha creato. La camorra è stupida.”

Per inculcare questo concetto, Pino Imperatore dà vita alla famiglia Esposito, e soprattutto al suo capofamiglia Tonino. Camorrista di 4 soldi, incapace e sfigato. Succube della moglie Patty e delle femmine della famiglia, ma col pedigree di tutto rispetto. È, infatti, il figlio di Don Gennaro Esposito, il Boss del rione Sanità a Napoli, ovviamente ammazzato dalla camorra, anzi dal suo stesso braccio destro. Dal suo guaglione più forte e ambizioso. Tonino e famiglia sono napoletani veraci. Vivono nel cuore del capoluogo campano e si esprimono sempre in un dialetto del quale Pino Imperatore riesce a cogliere anche sottigliezze incisive e indimenticabili, regalandoci slang e gag esilaranti. E proprio questo contrasto così marcato fra la risata senza freno, come ad esempio nell’episodio di Ipnotica, ‘a navigatrice erotica e la voglia di riscatto dei giovani napoletani impegnati a spezzare le catene del giogo criminale, condito dalla musicalità del dialetto campano, è una delle chiavi vincenti del romanzo.

Questa contrapposizione continua tra serio e faceto, fra stravaganza e concretezza, inettitudine e capacità, squilibrio e saggezza, caos e precisione, è giustamente spinta in ogni pagina fino all’eccesso proprio per rimarcare il conflitto senza fine fra giusto e sbagliato nell’eterna lotta fra il bene e il male. E la genialità di Pino Imperatore sta nell’inculcare il concetto che la camorra è stupida smontando alcuni stereotipi e rendendola ridicola dal suo interno stesso usando come tramite Tonino Esposito e i boss con cui interagisce. Intendiamoci bene, la criminalità organizzata, sia essa di matrice campana o altra, è una cosa seria, terribilmente seria, lo dice anche lo stesso autore, ma è indubbio che pure un sorriso, un pernacchio, uno sberleffo letterario se ben fatto, serve a ridicolizzare il mostro e soprattutto a formare le nuove coscienze che un domani lo combatteranno. Serve a non aver paura. Ecco allora che il cerchio si chiude e prende logica l’iniziale citazione di Amato Lamberti: "Solo i giovani possono dare una nuova voce alla voglia di legalità delle nostre terre“. E i giovani, che sono la nostra logica speranza, questo lo devono capire anche ridendo".

La caratterizzazione dei personaggi è ottima, impeccabile e curata in ogni sfumatura psicologica e questo vale per tutti, anche per le figure minori. Sono creature letterarie di grande rispetto che godono di vita propria. Proprio come se fossero vive e sono sicuro che tormentano il nostro Pino Imperatore così come i Sei personaggi in cerca d’autore fecero con Pirandello. Personalmente ritrovandoli ad un anno di distanza dal loro esordio me li sono risentiti vivi. Come se fossero della famiglia, cosa che mi capita solo da quando leggo Camilleri e limitatamente a Vigàta, con Montalbano e C.. E se tiro fuori Camilleri, per me ho detto tutto. Non ho altro da aggiungere.

Sul piano narrativo Bentornati in casa Esposito mantiene la stessa struttura del precedente Benvenuti in casa Esposito. Stessa narrazione ad episodi, stessi personaggi, stessa napoletanità che senza dubbio è una delle carte vincenti di quest’opera. Qui dentro, Napoli è così forte, prorompente e viva che alla fine ve la sentite cucita addosso perché l’avete respirata, ascoltata. Coccolata. Vi sentirete napoletani anche voi e godrete appieno della tipica meditazione partenopea: “Diceva Pirandello che uno quando è contento di se stesso ama l’umanità. Questo è il problema: noi non siamo mai contenti, vogliamo sempre qualcosa in più di quello che già teniamo, e di conseguenza ci andiamo a scontrare con gli altri. Tutti eternamente insoddisfatti.”

Qui dentro c’è tutto. Ci sarebbe da discutere per ore e per me sarebbero solo complimenti, quindi mi fermo.

Bentornati in casa Esposito è un libro bellissimo.

recensione di Ivo Tiberio Ginevra


martedì 11 giugno 2013

Cattiverìa


Rosario Palazzolo
Perdisa Pop Editore
Anno 2013
Pag. 320

Recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.thrillercafe.it

Tre anni ho aspettato il nuovo romanzo di Rosario Palazzolo. Tre lunghi anni. Finalmente l’ho letto e poi riletto. La rilettura è d’obbligo se davvero si vuole cogliere, assaporare, capire e stupirsi della follia narrativa di Cattiverìa. Una follia perfetta, ottimamente dosata, universale, analitica, concupiscente, divina, e al contempo grezza, patetica. Scontata.

Tutto parte dal disagio dei protagonisti, oramai privi di nomi. Privi d’identità se non di ruolo o genere: la madre, il figlio, inconsci della loro depersonalizzazione e così riplasmati dall’occulto demiurgo contemporaneo; dal più anonimo dei nomi, il più spersonalizzato in assoluto, dalle antiche radici: il signor “Media”. Oramai uno e trino. Indefinito, astratto, condizionante. Assoluto. E tutto in Cattiverìa passa dal suo volano che filtra i desideri, che li permea o manovra con fili invisibili in geometriche costruzioni obbligate ad una realtà illusoria; tragedia inconscia e immane dell’apparire. Vita falsa. Manipolata dall’oggetto del desiderio pubblicitario, sciacquata dal candore di una telenovela patinata di centinaia di anni, fatta aderire nell’inconscio insieme ai cartoni animati con cui si è svezzati, al sottofondo musicale esistenziale a base di sapori rassicuranti, e ai programmi nazionalpopolari di prima serata. Ecco, allora, il trionfo del demiurgo! Portobello, l’uomo tigre, i due protagonisti della telenovelaMedia. Vincitori sui gusti e sulle coscienze. Sulle personalità. Sull’uomo stesso. Vincitori sulla madre e sul figlio di Cattiverià. Vincitori biechi che non lasciano nulla. Mancanti di verità e menzogna. Mancanti di conforto. E in Cattiverìa non c’è conforto. Non c’è neanche l’ombra di un conforto perché assente del tutto fino a spingersi oltre. E Rosario Palazzolo, oggi, va oltre la misera speranza di una fede illogica miscelando in un impasto perfetto, padre e Dio, e dio padre di dio e di santi supereroi e di santi cartoni animati. Di San Francesco Superman o di Padre Pio Tigre (la spada di Zorro nelle mani di Padre Pio è l’emblema della sua Media sacralità).
Sentieri, Gino Paoli e pure Padre Pio. Eccoli tutti creati e asserviti. Ecco il trionfo, ossessivo, anancastico, presente in ogni dove e in ogni quando. Ecco il trionfo dei

Cattìveria è il delirio del sogno senza speranza alla ricerca dell’opportunità di successo. Un desiderio smodato di successo senza speranza. Una misera umanità incanalata in una vita che non da scampo. Svuotata di tutto e Cattiverìa stessa è un’opera svuotata di tutto. Dall’intreccio, praticamente nullo, dallo scorrere del tempo che non c’è, dall’interazione fra i personaggi del tutto inesistente come le loro psicologie, dai luoghi rigorosamente chiusi e indefiniti. Da azioni assenti ad eccezione di una, la potente, la principe, che ritorna, viva e cancellata al contempo, ma senza spazio in un istante che fu. Che è. Che è certezza e che non è. Al suo posto: Solitudine. E Silenzio. Silenzio in mezzo a una bufera di parole, tese a crepare il muro della tragica deflagrazione che dilagherà per tornare nuovamente al silenzio dell’incapacità di comunicare.

Non ci sono oggetti in Cattiverià. Non ci sono persone. Non ci sono dialoghi. C’è un’esplosione detonante la cui miccia lunga e lenta di polvere nera, divora il trauma inconfessabile e simbolico di una verità dissepolta e poi nuovamente sepolta per la quiete del rimorso di una madre e per la libera quiete di un figlio, per poi rientrare e tutto ricomporsi nel definito; perfetto nel suo contorno della difficoltà di essere. Di esistere. Di apparire. Cattiverìa è tragedia dell’apparire.

Un discorso a parte merita la scrittura di Rosario Palazzolo che io amo molto e da sempre. Non è scrittura per ragionieri questa, ma per gran contabili, perché alla fine, nonostante la gran carestia dei punti, l’incredibile tempesta di virgole, le pagine intere prive di qualsiasi punteggiatura, le sgrammaticature sempre volute, le nutrite espressioni dialettali, le storpiature delle parole, ecco che alla fine i conti, tutti i conti, tornano sempre. Anche quelli più che complessi, tornano sempre.

A chi è aperto o predisposto a ricevere qualcosa di nuovo, Palazzolo dona incredibili pagine scritte senza punteggiatura, ma dense del ritmo veloce del grande narratore che toglie il respiro, oppure regala tempeste di virgole che si trasformano in una musicalità di linguaggio originale e unico, ma Palazzolo, e tengo a dirlo, non inventa alcuna lingua. Questo è il suo personalissimo modo di scrivere, ed è solo il frutto di una profonda e meticolosa ricerca stilistica che come base ha l’amore per la parola. Una parola succhiata, mangiata, fagocitata e poi sputata, riplasmata e donata a nuova vita, dentro un concetto di libertà espressiva a confronto con la realtà quotidiana. Una parola sommata ad altre parole, mai messe a caso, sempre pesate che si trasformano in un motore che una volta azionato va fino in fondo adattandosi allo spessore culturale e ambientale dei personaggi, mischiandosi con loro, fino a creare eterogenei individui di uno spaccato che rappresenta una Sicilia popolare. Una parola parlata, quella di Palazzolo. Intelligente e colta. Diretta e inimitabile. Una parlata che incanta, seduce, che sprizza vita e vivacità, che anima, incalza, scandisce, completa e scanna ogni personaggio uscito dalla mente geniale di quel pazzo avanguardista di Rosario Palazzolo.

In conclusione Cattiverìa è un libro bellissimo e ancor più bello se riletto.



martedì 7 maggio 2013

Trinacria Park



Autore: Massimo Maugeri
Editore: Edizioni e/o (Collezione Sabot/age)
Anno: 2013
Pag.: 225

recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.thrillercafe.it

Due anni fa restai piacevolmente colpito dalla lettura di “Viaggio all’alba del millennio” del catanese Massimo Maugeri e da allora ho iniziato a seguire il suo Letteratitudine.it, con grande interesse. Appena ho saputo della sua ultima fatica letteraria “Trinacria park“, sono andato subito ad acquistarla senza sapere nulla della sua trama, e poi la pubblicazione nella Sabot/age delle edizioni e/o mi ha garantito ad occhi chiusi la buona qualità del libro.

Devo subito dire che fin dall’inizio ho capito di leggere una cosa buona e alla fine ho concluso con l’incrollabile convinzione di aver letto una cosa Veramente buona. Questo godimento è stato amplificato dal fatto di non sapere nulla della sua trama, quindi per assicurarvi il mio stesso piacere non dirò niente in tal senso, invitandovi a comprare il libro al buio ed a resistere alla tentazione di leggere la quarta di copertina.

Detto questo fare una recensione senza riferimenti ai fatti del libro è un compito molto arduo, ma l’opera di Maugeri merita uno sforzo anche da parte mia che traduco in una forma di grande rispetto verso l’autore.

La prima impressione che ho avuto leggendo il Trinacria park è stata quella di avere a che fare con un autore profondamente rinnovato sia nel linguaggio che nel concepimento della stessa struttura fantastica dell’opera, e fin dalle prime pagine ho subito apprezzato l’originalità sottile e sofisticata dal retrogusto storico letterario con la quale Massimo Maugeri esprime contenuti di natura universale sviscerando un odio profondo contro la menzogna. Questo è, infatti, e soprattutto, un romanzo contro la menzogna, dove nulla è ciò che sembra. Frase fatta che ritroviamo spesso come manifesto programmatico della collezione Sabot/age, ma l’autore siciliano fa molto di più, obbliga chi legge a riflettere su questo difetto umano elevandolo a fenomeno assoluto indossato da ognuno senza immunità alcuna, perché nessuno è esente dalla menzogna. Elevare questa debolezza ad imperfezione principe dell’uomo contemporaneo, conferisce al lavoro di Maugeri, il connotato di quella conoscenza della realtà, che solo i grandi narratori portano dentro di sé e questo pensiero è impresso dallo scrittore nel mondo dei caratteri, con un romanzo visionario e metaforico, ma al contempo lucido, spietato, attuale e soprattutto ricco d’allegorie e narrazioni fantastiche da sfuggire a qualsiasi catalogazione letteraria.

L’allegoria epidemica è uno schiaffo all’uomo moderno e richiama alla mente il piacere di conoscenze storico-letterararie sepolte, ma sempre attuali; Camus con la sua peste, e prima di lui il Manzoni dei Promessi sposi, continuando a ritroso fino a Defoe, Boccaccio, Tucidide. L’angoscia del contagio, del morbo in se stesso, è determinante nel mettere in risalto la fragilità dell’essere umano menzognero e prevaricatore su tutti, ma non sulla natura. Natura, che da sempre governa quel minuscolo bipede che crede di dominarla e che nel romanzo di Maugeri alla fine ritorna prepotente e purificatrice ad affermare il suo dominio sull’irrimediabilità dei destini umani, fluttuanti nell’aria e rappresentati da un cappello nero ricorrente fin dall’inizio e che alla fine piroetta nell’oscurità. Una natura forte, immensa, dominatrice che si vendica con semplicità dell’uomo, mettendo in risalto la sua fragile e impotente menzogna.

E poi c’è l’amore sconfinato dell’autore per la sua terra: la Sicilia e si respira Sicilia ovunque con tutte le sue contraddizioni e i suoi paradossi. La sua storia, i suoi miti e le sue miserie. La cucina, il sole, l’Etna. Isola bella, bellissima. Isola da amare, odiare, maledire. Isola isolata. Doppiamente. Suggestioni, profumi, sapori, ricordi e menzogne. Come quelle da sempre recitate da una classe politica corrotta e da giornalisti venduti al soldo di un padrone, da compaesani più o meno influenti, tutti abili a nascondere la verità al popolo, dietro un abile marketing che altro non è se non un cumulo di falsità.

I piani narrativi sfalsati che corrono paralleli per tutta l’opera, incrociano i destini dei singoli personaggi soltanto alla fine del romanzo, rendendoli protagonisti ognuno di una grande costruzione che dà origine a un potente romanzo corale, curato in ogni particolare e teso abilmente verso un finale visionario, pieno di mistero e thriller, dove si mescolano generi letterari diversi che sfuggono alla catalogazione dell’opera che è e rimane bella, originale e a tratti degna di un lirismo da antologia. “Metti che…” con il suo ossessivo ripetersi per pagine intere è una prosa così bella, intensa e struggente che da sola vale la lettura del libro di Massimo Maugeri.

recensione di Ivo Tiberio Ginevra

lunedì 22 aprile 2013

Dicono di Clelia


Autore: Remo Bassini
Editore: Ugo Mursia Editore
Anno 2006
Pag. 180

Recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.letteratitudine.it

Un buon vecchio libro non ha tempo. Un buon giovane libro rispetto ai classici deve anche sapersi imporre sulle nuove impietose regole del business e soprattutto deve essere pubblicato da una casa editrice lungimirante. Detto questo, ho il gran piacere di recensire il buon giovane libro “Dicono di Clelia” di Remo Bassini pubblicato nel 2006 da Ugo Mursia Editore e ancora in commercio.

Giacomo ha da poco superato la quarantina. Ha un lavoro sicuro come professore nelle scuole superiori, una moglie coetanea ancora bella, due figlie Laura e Ornella, che adora. Giacomo conduce una vita regolata e serena eppure….
Manfredi ha anche lui da poco superato la quarantina. Ha una moglie seducente, due figli maschi, ed è un maresciallo dei carabinieri realizzato nel suo lavoro e in famiglia, eppure anche lui…
Francesco ha la stessa età di Giacomo e Manfredi. È un medico stimato. È piuttosto ricco ed ha una bella moglie e una figlia, Marina, che lo adora, ma anche lui ha il suo “eppure”, però contrariamente agli altri due l’ha cercato, l’ha voluto e per questo ha rovinato tutta la sua esistenza.

Francesco, Manfredi e Giacomo non si conoscono neanche. Tutti e tre hanno tanto in comune, compreso quello che manca nelle loro vite. E a loro manca una cosa che con lo scorrere del tempo diventa essenziale. Diventa tormento. A loro manca la vita stessa. Perché da un certo punto in poi non l’hanno più saputa vivere. Complice una provincia noiosa e indifferente, hanno scoperto all’improvviso che sono incompleti. Che il grigiore d’ogni giorno ha tolto loro il colore acceso della vita. Ha tolto loro il rosso vivo. Il colore dell’amore. L’amore.

Tutti e tre lo desiderano, lo cercano, lo bramano. Tutti e tre lo vogliono. Incondizionato e travolgente. E questo desiderio si materializza per Giacomo nei panni di una collega d’università mentre si esibisce in un sensuale spogliarello, per Manfredi nelle perfette e conturbanti gambe di Geltrude, moglie del vice prefetto, e per Francesco nei fugaci amplessi carnali con una donna sposata nel suo stesso studio medico.

Il loro bisogno di evadere dalla stretta mortale della mediocrità umana incartata nel contesto indifferente e noioso di una provincia qualunque dell’Italia settentrionale, guida le esistenze di Giacomo, Manfredi e Francesco soffocandole nel desiderio spirituale e carnale dell’amore, quale riscatto edonistico della propria voglia di vivere.

A queste tre figure maschili d’amore negativo, fanno da contro altare tre figure femminili che potremmo definire positive, e su tutte Clelia, con la sua bellezza, la sua intelligenza e in suo modo di amare incondizionato senza limite alcuno, che eleva l’amore stesso a forza trainante della propria vita. Una vita dedita a questo sentimento, voluto, desiderato, preteso e agognato a sprezzo della dignità stessa.

E poi c’è l’amore sconfinato e deluso di Marina. Figlia tradita da un padre fedifrago. Offesa nel suo universale sentimento di puro amore filiale, che incolpevole vede crollare l’unica certezza della vita: “La sua famiglia”.

E infine Carla che non vuole perdere il marito, la sua famiglia e con questa tutte le proprie certezze, perché nonostante l’avvolgente routine della vita matrimoniale, ama ancora il marito e dimostra doti di sopportazione incredibili pur di non perdere il suo uomo e con questo, tutto quanto di buono ha costruito nella vita.

Tre figure maschili. Tre figure femminili. Uguali e contrapposte nello stesso tempo.

Per ultimo a completamento di questo grande affresco moderno sull’amore, si aggiungono altre due figure. Una maschile, Romolo e una femminile, Aldina. Personaggi indispensabili nella costruzione dell’opera di Bassini perché incarnano il primo l’amore puro, totale, profondo e devastante, mentre la seconda è l’esatto contrario del primo essendo la sintesi stessa della mancanza assoluta del sentimento, della fiducia e di tutti valori legati all’amore.

Remo Bassini in questo breve romanzo scandaglia a strascico il nostro quotidiano indifferente. Le nostre aspirazioni con le relative speranze deluse. La nostra morte interiore e giornaliera. Il nostro modo di amare. La nostra normale normalità.

Bassini ci travolge scrivendo d’amore senza scrivere un romanzo sentimentale.

Un’opera atipica, corale, ambivalente, dove l’intreccio delle storie dei vari personaggi scorre su piani narrativi sovrapposti, lontani, diversi e convergenti. Ricchi di particolari che non confondono, ma che seguono un’armonia cementata dalla figura di Clelia, come forza centripeta di un universo regolato dalla forza dell’amore. Piani narrativi che si sfiorano appena per riprendere, poi, la via disegnata all’origine con le sue imperfezioni, angosce, paure, e fallimenti fagocitati tutti dalla nostra insensibile, distratta, monotona esistenza contemporanea. Piani narrativi che s’intrecciano senza toccare il mondo di Clelia verso cui tutti fatalmente convergono e dove si apprezza la grande costruzione artistica dello scrittore toscano.

Lo stile di Remo Bassini è asciutto e diretto, con pagine liriche degne di nota, o semplicemente di essere inserite nelle antologie scolastiche.

È un occhio impietoso che mette in risalto le debolezze e i fallimenti di uomini illusi quali ingranaggi di una società perbenista, indifferente e tentacolare di una provincia qualunque dell’Italia settentrionale.

recensione di Ivo Tiberio Ginevra



Capo scirocco e intervista a Emanuela E. Abbadessa



Autore: Emanuela Ersilia Abbadessa
Editore: Rizzoli
Anno: 2013

Recensione e intervista di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata su www.wlibri.it

Capo Scirocco è un’immaginaria cittadina di una Sicilia del tardo ottocento dove soffia un vento “che fa impazzire le femmine”. Il vento caldo dello scirocco che da appunto il nome al luogo dove si svolge questo potente romanzo d’esordio di Emanuela E. Abbadessa.

Alcuni aspetti di questo libro mi hanno colpito favorevolmente fin dalle prime pagine. Mi riferisco in particolare alla scrittura molto scorrevole, semplice e leggera. Senza mai alcuna ripetizione, ma altrettanto misurata da nascondere l’impalcatura stilistica e complessa del grande romanzo classico, ricco di atmosfere indissolubilmente legate ai luoghi, colori, sapori e profumi di una terra unica e meravigliosa com’è la Sicilia. Atmosfere che trasudano calore, solitudini, speranze e memorie sempre scandagliate con l’armonia e la leggerezza di una prosa mai ridondante e a tratti poetica.

Altro aspetto che colpisce subito è la cura del particolare, descritto e ricostruito con precisione storica assolutamente strumentale alla memoria per compenetrare l’ambientazione d’epoca, salottiera e aristocratica. Gattopardesca in un’unica parola.

E poi ci sono le donne. Uniche protagoniste di questo romanzo, con le loro passioni e contraddizioni. I loro sogni, le loro speranze e le loro paure in relazione all’età e al tessuto sociale. Il loro modo di amare assoluto, travolgente. Unico. Il loro carattere. Il loro coraggio. I loro segreti. La loro bellezza. Bellezza che sfiorisce senza rassegnarsi all’incedere del tempo.

Non ultima, ma sempre e comunque presente come protagonista assoluta del romanzo, è la musica con le sue opere, la sua lirica. Il suo canto. E tutti i protagonisti non possono far a meno di lei perché questa è la loro stessa vita così come per l’autrice, che della musica ne ha fatta la sua grande passione.

Ho amato molto questa lettura.

EMANUELA ERSILIA ABBADESSA

Catanese di origine, Emanuela Abbadessa (autrice di Capo Scirocco, recensito qualche giorno fa), vive a Savona; ha insegnato Storia della Musica e Comunicazione Musicale alla Facoltà di Lingue dell’Università di Catania ed ha all’attivo numerose pubblicazioni specifiche. E’ stata ricercatrice della Fondazione Bellini ed è collaboratrice del quotidiano “La Repubblica” (ed. Palermo).

Intervistandola, la prima domanda in relazione al romanzo è d’obbligo.

D: Cos’è la musica per te e non uscirtene con la semplice risposta “Tutto”

R: Non lo farò perché mentirei. La musica ha fatto parte e fa parte della mia vita e, come mi insegnò mio marito che è stato anche il mio maestro, nel mondo della musica si deve far tutto. Così è stato per me che l’ho studiata, suonata, cantata, insegnata ma che ho anche lavorato nel mondo della musica a tutti i livelli: dalla biglietteria alla collaborazione con teatri prestigiosi. Ma per definire il mio rapporto con la musica vorrei usare una frase di donna Rita, la protagonista del mio romanzo: con la musica mi sento un’amante tradita. Che poi è anche il solo tratto autobiografico che ho concesso a questo personaggio. Quando alcuni anni fa la mia vita andò in pezzi, finii con l’incolpare la musica e per molto tempo mi limitai a trattarla a distanza, solo nell’ambito lavorativo. Il recupero “emozionale” della musica è legato a Capo Scirocco. E direi che è stato un buon modo per riconciliarci.

D: Anche l’amore è protagonista assoluto di Capo Scirocco pertanto ti chiedo cos’è l’amore per te e soprattutto raccontaci cosa ha fatto Ersilia per amore.

R: L’amore, la passione credo siano il motore di tutto. Sono una donna molto razionale ma con una fortissima carica passionale e dunque posso dire che le scelte più importanti della mia vita sono state determinate dalla passione. Faccio dunque tutto per amore e non dico con questo che l’amore sia sempre un buon consigliere, anzi. Ma tutto ciò che ho fatto, errori compresi, lo rifarei di nuovo.

D: Com’è nato Capo Scirocco?

R: E’ nato dalle mie memorie familiari in senso lato. Il nucleo iniziale della vicenda mi è stato ispirato dalla storia di mio suocero che aveva una garbata voce di tenore e che lasciò la casa paterna (a Caltagirone) per andare a Catania a cercare fortuna, diplomarsi e studiare canto. Poi, naturalmente, il resto della sua vita fu del tutto diverso da quello del mio protagonista ma la prima ispirazione mi viene da lì. A questo aggiungerei le memorie delle mie due famiglie: quella materna, originaria di Subiaco che è il paese natale del mio protagonista (al quale ho dato infatti lo stesso nome del bisnonno materno, Luigi Fumini) e quella paterna, una famiglia della buona borghesia palermitana alla quale devo tutto il breviario delle buone maniere racchiuso nel romanzo.

D: Come mai scelto di ambientare la storia nella Sicilia del tardo ottocento dandogli la struttura del romanzo classico, ricco di atmosfere e soprattutto, riproponendo il classico triangolo d’amore lui, lei, l’altra? Indubbiamente è stata una mossa ardita anche se vincente.

R: Credo che si debba scrivere ciò che si conosce e penso di conoscere la Sicilia abbastanza bene per poterla descrivere. La scelta temporale è nata dal fatto che volevo giocare con una lingua ricca e l’ambientazione fine secolo me ne ha dato la possibilità. La struttura classica invece deriva da un mio convincimento: penso che il romanzo, nella sua forma codificata dalla tradizione, abbia ancora qualcosa da dire. Quanto al triangolo amoroso nasce soprattutto dal mio desiderio di giocare con i temi del melodramma ottocentesco dentro il quale i miei protagonisti cadono loro malgrado e a volte addirittura sentendosi ridicoli nelle maglie di certe situazioni estreme. Ma, d’altra parte, quante volte anche a noi è successo di trovarci imbrigliati in situazioni “melodrammatiche” alle prese con passioni “sopra le righe”? A me è capitato e credo possa succedere a tutti.

D: Una delle cose che ho amato di più in Capo Scirocco è stato il fruscio della seta con le sue perfette ambientazioni salottiere e aristocratiche della Sicilia del tardo ottocento. Ritengo ci sia stato un forte lavoro preparatorio dietro a tutto questo. Vuoi parlarcene?

R: Studiare gli usi dell’Ottocento, gli abiti soprattutto, gli ambienti è stato esaltante e anche impegnativo. Ho letto molto, ho recuperato dalla memoria i racconti della nonna paterna della quale porto il nome, Ersilia appunto, e ho cercato di calarmi all’interno dei salotti, delle stanze da letto. A volte per superare la difficoltà di una descrizione ho fatto ricorso agli amici più anziani che non erano certo vivi a fine Ottocento ma che avevano memoria dei racconti delle madri e delle nonne. E’ stato quasi un viaggio nel tempo e, con mia sorpresa, mi sono trovata benissimo in quell’altrove.

D: Personalmente vedrei bene una riduzione cinematografica di Capo Scirocco, e allora, tanto per sognare, spara un po’ di attori per la parte dei protagonisti.

R: La domanda mi diverte perché in molti mi hanno detto che Capo Scirocco si presta ad una riduzione cinematografica o televisiva. Ammetto che ad un certo punto, sul finire della prima stesura, ho provato ad immaginare i miei personaggi e a dare loro volti di attori noti. L’impresa non è stata semplice direi. Ma dato che mi chiedi i nomi, eccoli ma è solo un gioco: Rita, forse Monica Bellucci; Annuzza Cristiana Capotondi; Mimì, Alessandro Preziosi; Cettina, Lucia Sardo. Buio totale su Luigi, non sono riuscita a dargli un volto già noto; mentre non ho dubbi su don Calogero Di Dio, Gilberto Idonea grande attore siciliano capace, come il geniale Angelo Musco, di passare dal comico al tragico con maestria unica. Stefania Motta sarebbe stata perfetta per la compianta Mariella Lo Giudice, un’attrice di enorme statura che dolorosamente non è più tra noi.

D: E se Capo Scirocco fosse un’opera lirica, da chi la faresti dirigere? E con quali cantanti?

R: Ancora più difficile. Abbado sul podio. E taccio sui cantanti. Non sono mai stata brava a sciorinare nomi di interpreti.

D: E tu quale ruolo faresti? E perché?

R: Beh, Rita Agnello è chiaro! Sono vedova e agée. Anche se più grande di Rita che ha 38 anni credo che i 38 di allora possano essere considerati i 48/50 di oggi.

D: Cosa ti ha divertito di più mentre lavoravi sul romanzo?

R: Trovarmi la casa piena di gente: tutti i miei personaggi mi si presentavano davanti, li vedevo muoversi, dire qualcosa, sistemarsi il vestito…

D: Cosa non ti sei fatta mai mancare quando scrivevi Capo Scirocco?

R: Il caffellatte! Credo di averne bevuto almeno un litro al giorno.

D: Stai già lavorando al prossimo romanzo? Puoi darcene un’anticipazione?

R: Ho sempre scritto, anche se questa è la mia prova nel campo della narrativa, e dunque continuo a farlo. Scrivere è una condizione essenziale della mia dimensione comunicativa. Ho in mente una storia e ci sto lavorando ma non perché penso ad un prossimo romanzo, semplicemente perché, come diceva mio marito a proposito degli esercizi di armonia, bisogna farlo sempre in modo che “la mano ci vada da sola”. Per non perdere l’allenamento insomma. E perché tenersi compagnia scrivendo è una delle cose più appaganti che si possa fare.

D: Grazie Emanuela, salutaci con un tuo sogno.

R: Che i lettori di Capo Scirocco si divertano a leggerlo e chiudendo l’ultima pagina del libro sentano un po’ di nostalgia.

recensioe e intervista a cura di Ivo Tiberio Ginevra

lunedì 11 marzo 2013

Chiamami Buio


Autore: Massimo Rainer
Editore: Todaro
Data di Pubblicazione: Settembre 2011
Pagine: 208

recensione di Ivo Tiberio Ginevra
pubblicata si www.thrillercafe.it

Chiamami Buio, non è un libro per tutti. Assolutamente No! Vi trascrivo l’inizio così vi fate subito un’idea.

"La testa della zoccola annuisce sul mio uccello dritto, seguendo docilmente i movimenti delle mie mani e mantenendo la giusta velocità da crociera.
Da brava puttana professionista, ha sempre saputo come usare al meglio la sua boccuccia, sicuramente rifatta da qualche chirurgo plastico, per dare piacere alla clientela.Lui, seduto dietro, mugugna, assistendo alla scenetta da film porno di terza categoria. Mugugna e sanguina dagli occhi pesti, il gran bastardo.
E io mi diverto troppo. Godo davvero come un matto ficcarlo in bocca alla sua troia, fino alle palle, mentre lui, legato come un fottuto salame e imbavagliato con del nastro adesivo da imballaggio, è costretto a starmi a guardare che me la passo alla grandissima".

...Allora siamo d’accordo. Non è una lettura per tutti, ma per chi piace il genere pulp “Chiamami Buio” deve rappresentare un testo di riferimento italiano.

Buio è uno sbirro strafatto di cocaina dalla personalità borderline. Vive e lavora a Milano, che ovviamente odia, ma questo è il minimo sindacale. Odia anche il prossimo suo che non rispetta affatto ad eccezione del fratello prete, unico suo legame con la famiglia. Per il resto è piuttosto corrotto, odia anche la legge in seguito ad un trasferimento punitivo e approfittando del suo ruolo e di qualche collega come lui, mette in piedi delle vere associazioni a delinquere dedite al traffico di droga e prostituzione, non disdegnando l’opportunità del crimine occasionale, dei ricatti ecc. ecc.. È piuttosto comprensibile che un personaggio così abbia dei nemici giurati che lo vogliano uccidere e proprio da uno tentativo andato a vuoto di farlo fuori si dipana una vicenda incalzante, ricca di colpi di scena fino al suo epilogo imprevedibile e spietato.

Recensire “Chiamami Buio” di Massimo Rainer non è semplice. La prima domanda che mi sono posto è stata a quale genere letterario assimilare quest’opera. Pulp? Hard-boiled? Poliziesco? O semplice spazzatura? Punti di contatto fra questi generi ne ho riscontrati abbastanza, ma erano molti e spesso contraddittori, soprattutto con l’Hard-boiled, perché se è vero che con questo genere Buio ha in comune il suo modo di agire solitario, l’anaffettività che lo vede inadeguato a farsi una famiglia, il bazzicare luoghi malfamati, l’essere sempre senza un centesimo, l’esagerazione nel bere e fumare, nonché un linguaggio piuttosto gergale, ha pure in netta contrapposizione con il genere Hard-boiled, l’assenza totale di giustizia nonostante sia un servitore dello stato, il perseguire sempre e solo i suoi loschi traffici, oltre a spingere all’eccesso tutto quello che fa male, come fumo, alcol, e droga in particolare. Anche il sesso è piuttosto sovrabbondante come il linguaggio spesso volgare. Poi con i mentori del genere come Sam Spade di Hammett o Philp Marlowe di Chandler, Rainer con il suo “Chiamami Buio” ha proprio pochissimi punti un comune e inoltre, in questo romanzo, manca l’indagine, in pratica, la cosa essenziale. E manca pure la narrazione di una società radiografata nel suo malessere, con le sue storie di disadattati, corrotti e corruttori, delinquenti e donne che sanno tradire. Mancano del tutto le figure positive, l’unica presente è ed ha il difetto di essere rassegnata alla sua stessa positività. Insomma Rainer e Buio hanno poco in comune con l’Hard-boiled e credo anche che sia ai limiti dello stesso sottogenere Pulp perché ogni situazione è esasperata fino al paradosso. Perché tutto è sempre spinto oltre l’eccesso, linguaggio compreso. In Chiamami Buio il degrado urbano e morale è la regola. La violenza come ragione di vita è la regola. La violenza orrenda è la regola. E deve essere grottesca altrimenti non ha alcun senso. Non deve avere giustificazione alcuna. Non ha e non deve avere alcun un perché. Se poi vogliamo cercarlo per forza diciamo pure che Rainer ha voluto far vedere come le mele marce si trovano anche all’interno delle istituzioni, che spesso sono bacate, strafatte di cocaina, corrotte, avide, depravate e assassine. Lo dice a modo suo con un personaggio che sta sopra le stesse righe, e lo dice stracatafottendosene ampiamente delle impressioni del lettore, perché Rainer (e uso il linguaggio appropriato) è uno che se ne sbatte i coglioni di dover scrivere per piacere. È uno libero. Uno coraggioso, che con la penna fa quello che vuole. Ha voluto creare un poliziotto come Buio e l’ha fatto. Bello nella summa di tutte le sue schifezze. Buio, infatti non conosce il limite. Applica la sua legge del male senza giustificazioni perché è semplicemente così. Marcio dentro. Buio è un protagonista assoluto fuori da tutti gli schemi.

All’inizio della lettura ho subito pensato al film di Abel FerraraIl cattivo tenente“, ma continuando lo scorrere delle pagine, questo Cattivo Tenente in confronto a Buio, mi è sembrato un’educanda. Nel personaggio di Rainer non c’è neanche l’ombra di un ravvedimento e in più c’è un’ironia lasciva che tiene viva l’attenzione perché non si distacca mai da una realtà guasta e orribile, obbligata ad essere descritta con uno sproloquio immorale e continuo. Esagerato. Sì, vero, ma questo è un risultato unico e credo inimitabile.

Il ritmo serrato della narrazione, la trama inattaccabile e i continui capovolgimenti delle situazioni creano un caos sovrano e generativo che ben si sposano con il progetto di Pulp estremo, che condito da un’ironia più che cinica, t’incolla alle pagine di un libro colorato di sangue e coca. Tradimenti e lussuria. Non si tratta di cattiverie attaccate le une alle altre solo per fare un Pulp, ma un progetto unitario ben sviluppato che non poteva essere scritto altrimenti.

Chiamami Buio è il miglior libro italiano di Pulp estremo e Buio è la peggiore pecora nera che ho incontrato, ed è vicina a tutti noi, più di quanto possiamo immaginare.